Possiamo definire traumatica la pandemia che ci ha travolti?
La parola trauma proviene dal greco, significa ferita e in effetti siamo un popolo ferito, sconvolto dall’irruzione di un evento inaspettato che ha interrotto le nostre vite, costringendoci ad una reclusione forzata e ad una distanza obbligata. Reclusi e lontani dai nostri affetti.
Il Covid 19 è un trauma perchè arriva con la potenza inevitabile di una tempesta, senza possibilità di prevederne la portata, né di affrontarla coi mezzi che avevamo a disposizione. Ciò che rende traumatico questo evento è l’impossibilità di nominarlo, fornendogli coordinate di senso. Siamo senza parole, senza spiegazione e senza soluzione.
Freud rintracciava come elemento distintivo di un evento traumatico la condizione di impotenza a cui il trauma inchioda il soggetto. Impotenza che non deriva dall’entità traumatica oggettiva di un evento.
Se è vero infatti che ci sono fenomeni che possiamo indicare come oggettivamente traumatici quali terremoti, guerre, catastrofi ambientali, violenze sessuali, per la psicoanalisi è altrettanto vero che il trauma è sempre e soltanto soggettivo. Ciascuno risponde in modo singolare a partire dalla sua interpretazione dell’accaduto. Basta ascoltare le voci dei pazienti per rendersi conto che, ciascuno, declina a suo modo l’evento della pandemia da Covid 19 e che questo trauma si annoda alla vita di ogni soggetto, andandone a risvegliare traumi più remoti.
Il trauma si inserisce nelle vite, tracciando una linea di demarcazione netta fra un prima e un dopo. Del prima possiamo dire. Del dopo non sappiamo nulla. Non possiamo sapere cosa accadrà quando saremo di nuovo padroni del nostro tempo, del nostro spazio, delle nostre esistenze.
Oggi, come psicoterapeuta, ascolto l’angoscia, la preoccupazione dei pazienti per la salute propria e dei propri cari, per la precarietà economica e per l’incertezza. Per la fatica della distanza e del fermarsi. La ascolto da dentro, un dentro in cui siamo immersi tutti quanti. Un dentro troppo pieno. Continui aggiornamenti, la conta dei morti, dei nuovi infetti, dei danni economici. Siamo invasi di parole che arrivano da tutte le parti.
Inondati e in attesa. In attesa di sapere anche quando e come poterci riappropriare delle nostre esistenze, sequestrate all’interno delle rispettive abitazioni.
I nostri corpi sono stati ridotti a oggetti da segregare, da imbavagliare, da distanziare. Corpi che si ammalano e che muoiono, in totale solitudine. Senza il conforto della presenza, della parola, dello sguardo.
Il Covid 19 ci confronta con la solitudine più radicale e ci coglie impreparati in un tempo che, prima, era un tempo accelerato, frenetico, affollato e ingombrato di oggetti.
La domanda che possiamo porci è: come potremo riabilitarci? Come potremo trasformare le ferite in occasioni? Cosa accadrà quando torneremo ad una vita che non potrà più essere, necessariamente, quella che è stata?
Lo psicoterapeuta si presenta da un lato come un esperto fra gli esperti, a cui facciamo appello in questo tempo precario e incerto, in cui abbiamo bisogno di risposte che curino l’angoscia, che diano nome al senza nome del trauma.
Dall’altro lato, tuttavia, la cura assegna al soggetto un posto nuovo, riabilitandolo al suo statuto, spostandolo dall’oggetto medicalizzato del virus, al soggetto cui si dà parola, accogliendone la voce e mettendosi in ascolto.
Riabilitarsi, dopo il trauma, non è che questo infondo, a ben pensarci: l’occasione di trovare un ascolto che non offra soluzioni. Ma che piuttosto si faccia vivo, dica si, risponda alla chiamata.
Farsi vivi in un deserto disseminato di morte è il compito etico di chi esercita la mia professione.
Andrà tutto bene? Abbiamo bisogno di crederci, come anche di metterlo in dubbio.
Abbiamo bisogno di un luogo in cui poter dire che, infondo, non lo sappiamo se andrà, davvero, tutto bene. E tuttavia, in questo lavoro di ricostruzione, possiamo scegliere di non essere soli.
Micaela Ucchielli
Psicologa, Psicoterapeuta, Docente Tutor IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata)